Noi adolescenti

Difendere i propri sogni di Alessandro D’Avenia

Parte seconda: Un professore che non dà i voti

Leo all’inizio giudicava negativamente il suo professore e non capiva perché non assegnasse i voti alle loro ricerche. Dopo ha imparato ad apprezzarlo. Dal suo professore, infatti, Leo ha imparato  una lezione molto importante: bisogna credere in se stessi e nelle proprie capacità e soprattutto credere nei propri sogni e lottare per raggiungerli.

Il Sognatore gira per i banchi a controllare l’esito della ricerca. Tutti sembrano averla svolta. A turno, chi vuole è chiamato a leggerla ad alta voce. Sembra di immergersi nella polvere e nel fuoco di secoli fa, eppure siamo in classe. Tutti hanno scritto qualcosa di cui sono orgogliosi, almeno quelli che hanno il coraggio di leggere. Io naturalmente non sono tra loro, leggere ad alta voce è come cantare. Suona la campanella. Ci affrettiamo a consegnare i nostri compiti, ma il Sognatore non li vuole. Incredibile! Preferisce che conserviamo la risposta che abbiamo trovato. E la custodiamo per noi stessi.
Il Sognatore è proprio un pazzo. Ti dà i compiti e poi non ti mette il voto. Che razza di professore è uno che non ti mette il voto? Certo però che è riuscito a far svolgere a tutti la ricerca. Anche a me, nel cuore nero della notte. Allora forse non è necessario il voto per costringerti a studiare. Il Sognatore rimane seduto benché la classe si stia svuotando. Sorride e gli brillano gli occhi. Ha fiducia in noi. Ci crede capaci di fare cose belle. Forse non è del tutto un fallito.
Non lascerò che i saccheggiatori brucino i miei sogni e li riducano in cenere. Non lo permetterò a nessuno. Rischio di non rialzarmi più. Invece Beatrice ha bisogno di me e non di un cumulo lagnante di macerie. Non voglio dimenticarmi quello che ho scoperto.
Non voglio perché è troppo importante, ma ho la memoria scadente. Devo scrivere tutto, altrimenti dimentico. Forse l’unico modo di salvarmi dalla mia memoria è diventare scrittore. Ne voglio parlare con Silvia, è l’unica che non mi prenderebbe in giro. Come se avesse ascoltato i miei pensieri si avvicina, mi si stringe al braccio e appoggia la testa sulla mia spalla.
«Cosa volevi ieri? Ho visto la chiamata solo stamattina».
«Volevo una mano per la ricerca».
Silvia solleva la testa e mi fissa con un’espressione triste:
«E certo. Cos’altro?»1.
Si stacca e si allontana.
La fisso andar via con la sensazione di non aver capito, come quando papà mi dice qualcosa e ne intende un’altra. A proposito, devo parlare con papà prima che me ne dimentichi...

Le parole che ho imparato

NOTA